Prendersi cura del caregiver
Caratteristiche, criticità e nuove prospettive legate al ruolo di chi si prende cura di una persona fragile
Caratteristiche, criticità e nuove prospettive legate al ruolo di chi si prende cura di una persona fragile
Caratteristiche, criticità e nuove prospettive legate al ruolo di chi si prende cura di una persona fragile
Donne, quasi sempre figlie, mogli o madri, tra i 50 e i 55 anni (o nel caso di mogli anche molti di più), a loro volta con qualche problematica di salute, in molti casi costrette ad abbandonare l’attività lavorativa per dedicarsi interamente o quasi a un familiare con una patologia cronica.
È questo, in estrema sintesi, l’identikit del caregiver familiare in Italia, così come emerge da una ricerca pubblicata sul “Journal of Medicine”. E ancora: apprendono sul campo le nozioni base per svolgere l’attività di cura e assistenza, vivono un progressivo isolamento dalla società a causa del gravoso impegno che incombe sulle loro spalle.
Laura Occhini, ricercatrice presso l’Università di Siena, docente di Psicologia clinica e dello sviluppo al corso di Laurea in Scienze dell’educazione e della formazione, approfondisce questo quadro partendo proprio dalla definizione di caregiver:
«Il caregiver è colui che si occupa di una persona che ha uno stato di salute particolarmente complesso, non è autonomo e vive una condizione di vulnerabilità e fragilità. Ha bisogno di un sostegno per semplici attività come lavarsi, vestirsi e mangiare, sia per attività più complesse come occuparsi della propria salute».
Non solo:
«Esistono due tipi di caregiver; quello informale che si occupa di assistere la persona con malattia cronica ed è comunemente un familiare. Il caregiver formale o professionale, invece, è pagato per svolgere tali funzioni; tra loro, i badanti. Dovrebbero essere dei professionisti, ma non sempre è così».
Antonio Pulerà, psicologo e psicogeriatra presso l’Ospedale di Arezzo, aggiunge a questa descrizione un ulteriore distinguo:
«Il caregiver professionale possiede una cultura professionale ed esperienziale che giustifica il pagamento di una prestazione; si tratta infatti di infermieri o educatori. La figura così diffusa della badante, invece, non ha una preparazione professionale, anzi, permane una situazione di forte irregolarità per quanto riguarda queste figure, tanto che è auspicabile una regolarizzazione professionale».
Qualcosa si muove
In ogni caso, si cominciano a proporre dei percorsi di formazione che possano contribuire a una professionalizzazione di coloro che assumono il ruolo di caregiver. Occhini spiega:
«La nostra sanità si occupa bene e anche con eccellenza delle acuzie attraverso i ricoveri ospedalieri o gli interventi medici generali. La sanità raramente, invece, si prende cura della cronicità, ovvero di quello stato irreversibile o degenerativo della malattia che richiede cure e attenzione e che determina un radicale cambiamento nello stile di vita della persona ammalata e della sua famiglia».
A sua volta, Pulerà afferma:
«Nella situazione a macchia di leopardo della Penisola esistono però alcune Asl o enti che hanno un’apertura a questi temi con qualche positiva esperienza di percorsi di formazione per i caregiver familiari. Addirittura, nei reparti, quando c’è una dimissione, a volte c’è anche una formazione all’assistenza del paziente cronicizzato, che risulta tanto più efficace ed efficiente quanto più ci rivolgiamo alla specificità della patologia».
Quello del caregiver, dunque, è un ruolo rivestito in primis da funzioni affettive, oltre che di cura, ma si traduce anche in un compito di grande rilevanza in una società in cui l’età della popolazione media aumenta in virtù di cure mediche sempre più efficaci ma che non è adeguatamente strutturata per rispondere ai bisogni di assistenza di lungo periodo.
Tra le principali difficoltà che affronta la figura del caregiver, c’è l’aspetto psicologico, che secondo la professoressa Occhini è generalmente tenuto in scarsa considerazione:
«Il caregiver formale ha degli orari, un contratto, competenze definite. È pertanto abissale la differenza con il caregiver familiare, che ha un carico affettivo, emotivo e di invasività sulla propria vita enorme: molto spesso sta a contatto con il paziente 24 ore su 24, dunque l’attività è pervasiva e invasiva, a scapito, spesso, anche di altri rapporti familiari. A livello sociale, poi si crea spesso una povertà relazionale e si diluiscono le relazioni interpersonali».
Lo stress che vive il caregiver prende il nome di “caregiver burden”, ovvero un esaurimento che coinvolge gran parte degli aspetti della persona:
È una condizione molto rischiosa: le statistiche confermano che in una condizione di caregiver burden il caregiver è molto meno efficace nella cura del paziente, che, per questo rischia di incorrere in recidive e nuovi ricoveri ospedalieri.
Si generano poi dei problemi di relazione con gli operatori sanitari, con cui – conferma Pulerà – si vive uno stato di maggiore ostilità e incomprensione comunicativa.
«L’osservazione quotidiana all’interno dei reparti ospedalieri conferma, del resto, che manca anche la capacità da parte degli operatori sanitari di comunicare efficacemente con queste persone: in alcuni ambienti si dovrebbe lavorare di più sulle communication skills per ridurre il rischio di tensioni».
Intuizioni ed esperienze supportati anche da una ricerca condotta presso l’Ospedale di Arezzo dimostrano come a volte il caregiver familiare ha un’idea della malattia falsata rispetto al reale, ovvero non ne ha piena e lucida coscienza.
«Ad esempio, in caso di Alzheimer, non sempre i figli hanno cognizione della malattia del genitore, dunque soffrono per dei comportamenti violenti o comunque ingrati che questi potrebbe avere nei loro confronti senza capire che sono il risultato della malattia. Per questo abbiamo messo in atto un protocollo che mette in evidenza il sistema di attaccamento e accudimento tra figli e genitore».
Ecco, dunque, che Pulerà lavora molto sul concetto di autoefficacia del caregiver:
«Ovvero, ciò che la persona pensa di essere in grado di fare per assistere nella maniera migliore il familiare. Se si sente all’altezza di imparare una pratica assistenziale, ad esempio gestire la nutrizione artificiale, si sentirà più sicuro ed efficace nel dare la migliore assistenza possibile, mantenendo viva anche la relazione affettiva. Se si trova invece in una situazione di stress, la sua capacità di apprendere nuove tecniche sarà più debole, pertanto farà probabilmente ostruzione alle dimissioni. Si tratta di un ulteriore elemento di complicazione, perchè per un paziente anziano stare in ospedale, fuori dal suo ambiente, comporta un maggiore rischio di decadimento cognitivo».
Nuove prospettive
Molteplici e complesse sono dunque le tematiche che riguardano la figura del caregiver, ulteriormente peggiorate dalla pandemia. La relazione, infatti, necessita di continuità, il sistema motivazionale dell’accudimento della persona fragile, soprattutto dell’anziano, prevede un contatto continuo e costante.
Il tutto in una situazione in cui, anche oggi, è molto difficile avere accesso a servizi territoriali sanitari. Laura Occhini ritiene che ci sia bisogno di un potenziamento del servizio territoriale verso l’assistenza alla cronicità più che di quello ospedaliero, nonché di figure specifiche che si prendano cura della riabilitazione del paziente, sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico ed educativo.
«Quando in una famiglia si ammala una persona, si ammala l’intera famiglia e quella famiglia ha necessità di essere supportata».
Funzionano invece molto bene gli sportelli che spiegano come accedere ai servizi e gli iter burocratici. Le fa eco il dottor Pulerà, che spiega:
«Durante il Covid sono partiti progetti di telemedicina e teleconsulto in cui gli operatori e le famiglie possono dialogare. Le RSA giocano un ruolo molto importante in questa partita, in cui devono evolversi dalla sola funzione di accoglienza e assistenza a luogo in cui si possa accompagnare la famiglia in una malattia cronica, in cui la famiglia – elemento stabilizzante per l’anziano – possa rimanergli vicina. Viviamo un momento di grande cambiamento, le esigenze continuano ad evolvere».
Psicologo e psicogeriatra presso l’Ospedale di Arezzo
Ricercatrice e professoressa aggiunta di Psicologia dello sviluppo e Psicologia clinica, Università di Siena
“Da familiare a caregiver. La fatica del prendersi cura” è il volume pubblicato da Laura Occhini nel 2019 con Gabriele Rossi (FrancoAngeli, pp. 220, €29) e raccoglie gli interventi di molti autori (fra cui Antonio Pulerà) che lavorano in diversi ambiti dell’assistenza sanitaria.
Nel volume la professoressa Occhini tratta l’aspetto della cronicità, durante il quale il familiare si trova o si percepisca come solo, a causa di un vissuto destabilizzante.
«Bisogna invece mandare il messaggio che il caregiver in difficoltà deve chiedere aiuto, non deve vergognarsi della propria fragilità, proprio per far stare bene il familiare. Guardando al futuro sogno una società in cui vi siano dei respite care, ambienti in cui può essere ricoverato il paziente per il tempo necessario affinché il caregiver possa riposarsi o ricaricarsi. Sarebbe molto utile anche formare respite assistant, educatori familiari forti di una nuova visione, che sollevino in parte il lavoro del caregiver e lavorino per ricostruire reti sociali per il paziente. Non da meno, servirebbe poi maggiore sostegno economico e semplificazione burocratica per le famiglie».
L’intervista a
Ricercatrice e professoressa aggiunta di Psicologia dello sviluppo e Psicologia clinica, Università di Siena.
Caratteristiche, tipologie e identikit del caregiver familiare e formale in Italia