Progettare per l’inclusione sociale, cosa significa?
Risponde alla domanda Maria Rosanna Fossati, designer di interni specializzata nella progettazione inclusiva
Risponde alla domanda Maria Rosanna Fossati, designer di interni specializzata nella progettazione inclusiva
Risponde alla domanda Maria Rosanna Fossati, designer di interni specializzata nella progettazione inclusiva
Lo human-centred design è un tema largamente affrontato nel numero di settembre di WimedYou (leggi l’articolo Il design, bello e per tutti) e, vista l’importanza, abbiamo deciso di approfondire l’argomento intervistando un’altra persona esperta del settore.
Lei è Maria Rosanna Fossati, designer che ha un’idea ben precisa del suo lavoro e del concetto di progettazione:
«Il compito di un designer è disegnare il mondo, ovvero quegli spazi, prodotti e servizi ai quali tutti devono poter accedere senza distinzioni sulla modalità di fruizione. Questo deve essere fatto attraverso la progettazione, intesa non come integrazione ma come comunicazione dell’inclusione sociale. Un esempio concreto è il bagno per disabili di una camera d’albergo 5 stelle: non può avere le sembianze di un bagno d’ospedale ma deve rispettare il livello di lusso della struttura».
Una buona progettazione quindi garantisce a tutti lo stesso diritto alla partecipazione sociale. Per fare questo al meglio, però, la dottoressa Fossati ritiene fondamentale soffermarsi e analizzare come le persone con disabilità interpretano le diverse soluzioni progettuali.
«Nel corso degli anni ho cercato di capire quali potessero essere gli strumenti (che definisco “la cassetta degli attrezzi dei designer”) in grado di stimolare i progettisti a risolvere in maniera creativa e inclusiva anche le specifiche esigenze di persone con disabilità».
Il suo profondo interesse a tematiche quali accessibilità e inclusione sociale deriva anche dalla sua personale esperienza di vita. Maria Fossati nasce infatti con un’agenesia congenita dell’avambraccio sinistro, diagnosticata solo post parto. Una disabilità che non le ha impedito di vivere una vita di «estrema normalità» come la definisce lei stessa, grazie anche alla lungimiranza dei suoi genitori.
«Mi rendo conto che le scelte prese dalla mia famiglia hanno poi influenzato positivamente tutta la mia vita. Fin da subito i miei genitori hanno affrontato la mia crescita ed educazione in modo normale, senza trattarmi come una bambina “speciale”. Alla tenera età di sei mesi, ad esempio, io avevo già la mia protesi con cui gattonavo per casa».
Un approccio alla vita che la designer ha poi applicato anche nel suo lavoro; questo, insieme alla sua disabilità, hanno reso Maria Fossati la persona ideale per entrare a far parte del team di SoftPro, il progetto europeo che prevede il passaggio della mano robotica SoftHand da un’applicazione industriale a un’applicazione protesica.
«Dopo l’industria, l’applicazione della mano sulla “persona” ha reso necessaria la valutazione da parte dell’utente finale della funzionalità, ma anche delle sensazioni che questa mano suscita nell’utilizzatore stesso e nella società. Insieme al team di ricercatori dell’Università di Pisa e dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, guidati dal prof. Antonio Bicchi, dal 2018 mi occupo di testare le funzionalità di SoftHand Pro ma anche di analizzare quali possono essere le caratteristiche di finitura ideali da applicare».
Che impatto ha la mano su chi la usa? Quale dovrebbe essere il suo colore, le sue sembianze e il materiale per farla accettare dagli altri? Secondo la società quali funzionalità può avere la mano robotica? Le persone possono averne paura? Queste sono solo alcune delle domande che la dottoressa Fossati e il team di ricerca SoftBots si è posta in questi anni e che hanno permesso di arrivare a un buon punto di sviluppo.
«Oggi siamo in grado di collaborare con gli istituti clinici interessati a fare test riabilitativi sulla capacità della mano. Abbiamo anche ricevuto un grosso finanziamento europeo per il progetto ERC Synergy Grant “Natural BionicS” che ha invece come obiettivo quello di collegare la SoftHand Pro all’organismo a livello chirurgico e nervoso, nella ricerca per ridare anche il senso del tatto».